Il mondo fa schifo?

Sulla comprensione critica della realtà storica

1.

Uno dei segni del nostro tempo è la diffusione tra gli adolescenti di un disincanto che si esprime spesso nel giudizio nichilistico per cui il mondo fa schifo. Tale giudizio si può ricondurre genericamente alla delusione narcisistica in cui si imbattono ragazzi vissuti in contesti familiari che tendono, bene o male, a dare ai propri figli un infinito e fittizio valore, esponendoli al rischio di scoprire traumaticamente, quando si affacciano alla vita e il loro orizzonte esistenziale si allarga, di essere "nessuno": anonimi in rapporto al mondo nella sua totalità, eccezion fatta per i parenti e qualche amico.

Il valore assegnato dai genitori ai figli spesso è semplicemente espressivo del loro narcisismo, che si esprime delegando ad essi la funzione di soddisfare tutte le loro aspettative frustrate (solitamente riferite allo status sociale). In altri casi, dipende da un amore reale, che però realizza un effetto negativo nel momento in cui il genitore rimane cristallizzato su di un sentimento che gli impedisce di valutare il figlio oggettivamente, come uno dei tanti individui che esistono sulla faccia della Terra, destinato un giorno ad essere, nella maggior parte dei casi, un comune cittadino.

Purtroppo, la tendenza a fare sentire il figlio infinitamente importante è alimentata anche dalla psicologia, che insiste di continuo sulla necessità che il bambino si senta importante, amato, stimato dal genitore.

La psicologia ha la singolare capacità di banalizzare anche verità importanti. Il luogo comune per cui il bambino deve sentirsi importante agli occhi del genitore è, per l’appunto, la banalizzazione del pensiero di due psicoanalisti famosi: J. Bowlby e H. Kohut. Entrambi insistono sull’importanza del legame empatico tra genitori e figlio nelle prime fasi dello sviluppo. Ma, nella loro ottica, l’empatia è ben altro da un amore cieco che lo fa sentire al centro del mondo, dato che questo ruolo, valido nel microcosmo familiare, non ha riscontro in rapporto al mondo nella sua totalità.

Un amore “sano” comporta da parte del genitore il riuscire a distinguere tra ciò che il figlio rappresenta per lui e ciò che egli è nella sua realtà: un bambino come gli altri, sia pure con caratteristiche sue proprie.

Sia il narcisismo che l’amore "cieco" impediscono di operare questa distinzione, e pongono di conseguenza le premesse perché il passaggio dal sentirsi al centro del mondo all’essere nessuno (condizione esistenziale propria di ogni essere umano) si realizzi, oggi, sempre più spesso catastroficamente.

La “scoperta” di essere nessuno dipende, peraltro, non dal rapporto con i genitori, ma da un processo sociale di secolarizzazione per cui, con l’avvio dell’adolescenza, sempre più spesso i soggetti mettono da parte le credenze religiose che fanno parte, esplicitamente o implicitamente, della pedagogia corrente, si aprono al mondo e scoprono la loro insignificanza esistenziale, l’anonimato che caratterizza l’essere oggi cittadini del mondo.

La scoperta in questione è ancora più dolorosa perché l’apertura degli occhi sullo stato di cose esistente nel mondo coincide con l’interiorizzazione di un modello normativo secondo il quale non v’è alternativa tra l’essere qualcuno e nessuno, e l’essere qualcuno significa univocamente darsi da fare per conseguire uno status sociale privilegiato.

Il giudizio per cui il mondo fa schifo è una delle espressioni più tipiche tra gli adolescenti della scoperta della loro dimensione esistenziale in rapporto alla totalità del sistema. Essa significa, a ben vedere, che il mondo frustra le loro aspettative, che però sono alienate nella misura in cui confondono l'umano bisogno di felicità con il diritto ad essere felici.

Per venire a capo di questo problema, occorrerà riformulare un modello pedagogico che porti i genitori ad amare i loro figli e a sentirli fin dall’inizio come futuri cittadini del mondo i quali, per assumere valore, dovranno fare un lungo tragitto di individuazione partendo da una condizione di anonimato sociale.

Questa premessa introduce solo il tema dell’articolo, il quale verte sulla circostanza per cui, al di là della traumatica scoperta adolescenziale di essere nessuno, il giudizio per cui il mondo fa schifo si mantiene, in un certo numero di soggetti, anche al di là dell’adolescenza e diviene spesso la matrice di una visione del mondo ricca e articolata, che integra le esperienze personali, sociali e culturali che i soggetti fanno, trasformandosi in un’ideologia.

Questa circostanza è molto diffusa tra i soggetti introversi, anche se in genere convive con un giudizio altrettanto impietoso nei propri confronti. Merita, dunque, una particolare attenzione.

Il dato da cui partire concerne un aspetto dell’apparato mentale umano su cui ci si sofferma di rado. Se il sentire, che funziona sin da quando il bambino viene al mondo, implica già una qualificazione dell’ambiente, quindi una sua valutazione, l’attività cognitiva che si avvia sulla sua base è prevalentemente interpretativa. Ogni interpretazione implica una valutazione.

Ciò significa che la mente umana, oltre a distinguere e a classificare, è impegnata di continuo a valutare la realtà con cui si confronta. Essa però percepisce la realtà secondo modalità che dipendono dalla fase di sviluppo evolutivo. E’ evidente che il neonato può valutare solo gli stimoli ambientali da cui è investito. Il bambino piccolo valuta le persone e le situazioni che fanno parte del suo microcosmo. Solo l’adolescente comincia ad avere la consapevolezza che il mondo nella sua totalità trascende i confini della realtà con cui di fatto interagisce.

Anche se gli orizzonti della coscienza si allargano, rimane il fatto che, all’interno di ogni esperienza, sussiste uno scarto sempre rilevante tra il mondo effettivamente esperito dal soggetto e il mondo nella sua totalità che, per molti aspetti, è poco noto.

Purtroppo questo scarto non è tollerabile per la soggettività umana, che ha bisogno, a partire dall’adolescenza, di dotarsi di una visione del mondo totalizzante. Il meccanismo per cui, da dati assolutamente parziali, un soggetto riesce a costruirsi una visione del mondo del genere non è noto e, che io sappia, non è stato neppure indagato. E’ probabile che esso si fondi su di un principio di generalizzazione, come pure che avvenga, in larga misura, a livello inconscio.

A questo aspetto occorre aggiungerne un altro, di non minore portata. Ogni esperienza umana è immersa nel flusso della storia tout-court. Ciò significa che ogni soggetto ha una sua storia personale che si fonda sull’interazione con un determinato contesto storico-culturale (a partire dalla famiglia). La coscienza però solo raramente riesce a trascendere il primo aspetto e a tenere conto del secondo, nonostante l’uno sia contenuto nell’altro.

Posto, dunque, che ogni uomo, via via che cresce, non può prescindere dal formulare un giudizio sul mondo nella sua totalità, sarebbe meglio che non gli desse troppo credito e si ripromettesse di calibrarlo via via che l’esperienza di vita gli fornisce altri dati da elaborare.

Trovarsi di fronte ragazzi che, tra i 15 e i 20 anni, fanno un bilancio della vita come se l'avessero già vissuta, e affermano che il mondo fa schifo con la convinzione di aver scoperto la "verità", è molto triste. Se ne possono capire le ragioni, ma è difficile non leggere in tale giudizio un’atroce delusione.

Il problema riesce più chiaro se si fa riferimento al fatto che un giudizio più o meno dello stesso genere circola nell’anima dei soggetti introversi e si perpetua nel corso della vita. Nel saggio Timido, docile, ardente ho ricondotto questo giudizio alla suggestione che, negli introversi, esercita il “sogno” di un mondo di esseri empatici, solidali, riflessivi, ecc. Un nobile modello che, però, diventa doppiamente disfunzionale. Applicandolo al mondo, infatti, gli introversi registrano uno scarto che ferisce la loro sensibilità, li esaspera e li porta spesso a rifiutare di appartenere ad esso. La rabbia viva e talora cieca che discende dalla presa di coscienza di come stanno le cose nel mondo reale fa sì che, anche applicandolo a se stessi, essi giungono ad un giudizio più o meno radicalmente negativo perché la fantasia di cancellare, se fosse possibile, un numero rilevante di esseri umani dalla faccia della Terra è, ovviamente, poco compatibile con quel “sogno”.

2.

Il giudizio secondo il quale il mondo fa schifo sembra, dunque, accomunare due diverse categorie di adolescenti: quelli il cui narcisismo onnipotente copre di fatto una dotazione media di potenzialità che, tra l’altro, non vengono coltivate, e gli introversi, che, in genere, non sono narcisisti, hanno potenzialità rilevanti che comportano un bisogno di autorealizzazione, ma, non di meno, sono letteralmente intossicati dalla rabbia e dalla frustrazione.

C’è una radicale differenza tra le due categorie. I narcisisti hanno un orientamento adattivo. Essi farebbero carte false pur di conseguire un posto al sole, di avere successo, di essere famosi. Il loro giudizio non è critico in rapporto allo stato di cose esistente nel mondo: definisce solo lo scacco del loro bisogno di non trovare in esso una collocazione adeguata ai loro desideri.

Gli introversi, viceversa, pur se non sono, ovviamente, immuni da un bisogno personale di affermazione, contestano il mondo per quello che esso è. Lo ritengono “schifoso” perché banale, mediocre, superficiale, rozzo, ecc., e preda, tra l’altro, di un modello meritocratico che privilegia i più dotati di competitività, di furbizia e di “cattiveria”: i migliori, dunque, su di una scala di adattamento all’esistente, non in assoluto, in termini di valore antropologico.

Possiamo trascurare il vissuto della prima categoria in quanto semplicemente espressivo di un’alienazione per cui il soggetto desidera essere ciò che non sarà mai.

Il vissuto degli introversi merita invece di essere analizzato, perché esso fa riferimento all’impossibilità di diventare ciò che l’individuo può essere in questo mondo. Il mondo fa schifo, dunque, perché ostacola la sua individuazione, lo distoglie da essa obbligandolo ad un perpetuo confronto e, al limite, lo emargina.

Dico d’emblée che ritengo il giudizio in questione sostanzialmente moralistico: esso muove dal riferimento a come il mondo dovrebbe essere e lo valuta alla luce di questo modello ideale.

Dato che l’apparato mentale umano è aperto sulla frontiera del possibile, è lecito desiderare che il mondo sia altro da quello che è. Occorre però tenere conto che, nella sua realtà effettuale, il mondo è un prodotto storico, non già la realizzazione di un progetto fatto a tavolino. In quanto prodotto storico, esso corrisponde a due esigenze fondamentali: la trasformazione dell’ambiente naturale al fine di adattarlo ai bisogni umani e la produzione di istituzioni, idee, convinzioni e valori funzionali a permettere ad un determinato gruppo di avere una sua identità in una certa misura coesa, unitaria e persistente nel tempo.

Questi due aspetti, nei quali si esaurisce la specificità della specie umana rispetto a tutti gli altri animali, non sono proceduti sempre in maniera sincronica. La trasformazione dell’ambiente è stato un assillo costante dell’umanità, ma frenata, sino a qualche tempo fa, dai limiti della tecnologia. La cultura “spirituale” viceversa ha avuto uno sviluppo rigoglioso dall’epoca in cui la classe intellettuale si è separata da quella manuale.

Se si risale appena di qualche secolo, giungendo al Rinascimento, il bilancio tra attrezzatura tecnologica e patrimonio umanistico appare fortemente sbilanciato dalla parte del secondo.

Naturalmente, c’è da considerare che la cultura “spirituale” è stata sempre retaggio di una minoranza. Essa, però, ha inciso sulla mentalità comune come l’aria che si respira. Basta pensare all’incidenza del Cristianesimo sull’immaginario collettivo per rendersene conto.

Il bilancio ha cominciato ad equilibrarsi e ad invertirsi con la nascita della scienza nel Seicento e, dalla fine del XVIII secolo, con le applicazioni tecniche che essa ha prodotto. Sulla base di queste tecniche si è avviata l’industrializzazione, che ha avuto un andamento esponenziale, trasformando il mondo in un’immane raccolta di merci.

Marx è stato tra i primi a cogliere il pericolo dell’industrializzazione sotto forma di passaggio da una cultura centrata sul bisogno d’uso, per cui gli uomini producono direttamente ciò di cui hanno effettivamente bisogno e scambiano i prodotti sul piano dei rapporti tra persone, ad una cultura centrata sui beni di consumo, vale a dire di oggetti separati dai loro produttori, la cui acquisizione avviene sotto forma di scambio tra merce e denaro. Egli ha colto anche il pericolo che i beni di consumo diventassero protesi dello scarto che si dà tra la finitezza umana e l’infinitezza del desiderio, e giungessero ad alimentare l’avidità di avere anziché il bisogno di essere, che riconduceva allo sviluppo individuale e sociale del soggetto attraverso il lavoro (inteso come contributo alla crescita della ricchezza sociale fruita da tutti), la pratica dei rapporti sociali e degli affetti, la coltivazione dell’arte, della letteratura, della filosofia, della scienza, ecc.

Se Marx ha commesso un errore è stato quello di prevedere un universale immiserimento delle classi lavoratrici, che è stato scongiurato dalla nascita dello Stato sociale e, su scala mondiale, si sta realizzando oggi, sotto forma di progressivo squilibrio nella distribuzione della ricchezza, e non un’evoluzione del sistema socio-economico tale da sfuggire al controllo umano. Un pericolo del genere egli di fatto lo ha preso in considerazione, definendo il capitalista stesso come una ruota dell’ingranaggio, ma era sufficientemente certo che la coscienza di classe dei proletari, depositaria di valori incentrati sulla solidarietà umana, avrebbe potuto, attraverso la rivoluzione e l’appropriazione degli strumenti di produzione, riacquistare il controllo sull’evoluzione del sistema produttivo, orientandolo alla soddisfazione dei bisogni umani.

Quello che è avvenuto e sta avvenendo è sotto gli occhi di tutti. Il sistema capitalistico contemporaneo, attraverso la globalizzazione dei capitali finanziari, si è sottratto al controllo dei governi nazionali. Esso detta le sue leggi alla luce di un darwinismo sociale che trasforma l’esistenza in una dura lotta per sopravvivere, destinata a premiare solo i più adatti e a votare all’emarginazione e all’estinzione gli altri.

3.

Si riflette poco sulla ricaduta, enorme,che il darwinismo sociale ha avuto e continua ad avere sulla psicologia collettiva e individuale.

Per un verso, infatti, esso alimenta uno stato di precarietà permanente che sollecita gli esseri umani a vivere la loro sopravvivenza e il loro potere in termini strettamente individuali, in opposizione dunque alla loro appartenenza ad un gruppo sociale. L’egoismo individualistico è stato identificato da tempo come il tratto più tipico della cultura occidentale.

Anche per questo aspetto, però, la lezione di Marx sembra più profonda rispetto a quella degli infiniti pensatori, sociologi e psicologi, che la riecheggiano.

Nelle sue opere, infatti, egli fa di continuo riferimento all’indifferenza del soggetto nei confronti dei suoi simili. Tradotta in un linguaggio attuale, l’indifferenza significa l’anestetizzazione e la sterilizzazione dell’empatia.

L’empatia è un’emozione viscerale costitutiva dell’apparato mentale umano. A mio avviso, è la chiave fondamentale dello sviluppo originario della società umana, che si è costituita sulla base della solidarietà tra membri il cui destino era vissuto come comune e sulla base della tutela dei deboli (i bambini anzitutto, ma anche gli anziani).

Le conseguenza di una sterilizzazione dell’empatia non sono sempre apparenti.

L’emozionalità, come ho scritto in un articolo, è attiva a livello viscerale ma è rappresentata anche a livello cognitivo. L’anestetizzazione investe la componente viscerale, quella che, in presenza dell’altro, soprattutto se egli è in difficoltà o ha bisogno o soffre, fa vibrare una corda di identificazione spontanea e promuove un aiuto.

Poche persone nel nostro mondo hanno coscienza di questa anestetizzazione e la ideologizzano sotto forma di una scelta consapevole (per quanto contestabile) di vita ispirata all’egoismo, al cinismo, all’uso strumentale degli altri. I “cattivi per scelta” sono anche i meno pericolosi socialmente parlando, perché essi non si mascherano, giocano a carte aperte e dunque sono facilmente identificabili.

La maggioranza delle persone, anestetizzate a livello viscerale, reprimono e rimuovono questa realtà perché non ce la fanno a tollerare il suo impatto sull’immagine che hanno di sé. La rimozione è agevolata dalla possibilità di coltivare la socialità e i buoni sentimenti a livello cognitivo.

La conseguenza della scissione tra un’empatia viscerale anestetizzata e un’emozionalità sociale rappresentata a livello cognitivo è disastrosa, perché induce uno scarto clamoroso tra i comportamenti sociali agiti dall’individuo e la consapevolezza che egli ha delle loro conseguenze a carico degli altri. In pratica, il soggetto pensa di comportarsi sostanzialmente bene, di essere civile e in una certa misura rispettoso degli altri e sensibile, mentre il suo comportamento è vissuto dagli altri come attestante un’insensibilità e una rozzezza più o meno rilevanti, un narcisismo e un egoismo insopportabili e una tendenza a usare e a manipolare gli altri come oggetti.

Dell’esistenza e dell’incidenza di questa singolare condizione – alienata e in larga misura inconsapevole -, che non si può far rientrare nell’ambito della psicopatia sociale tradizionalmente riconosciuta dalla nosografia psichiatrica, si danno prove a tal punto numerose che è imbarazzante selezionarne alcune.

Si può partire banalmente dal genitore convinto di agire per il bene del figlio, che se ne prende cura ossessivamente, ma in realtà pretende che egli soddisfi le sue esigenze narcisistiche diventando quello che lui desidera che sia. Il voler bene in questo caso riguarda il figlio immaginario rappresentato a livello cognitivo, e crea problemi laddove, come accade spesso, la realtà del figlio non coincide con quell’immagine.

Si danno numerosi insegnanti tendenzialmente narcisisti e perfezionisti, malauguratamente apprezzati dai genitori, che di fatto esibiscono il loro sapere per sottolineare l’ignoranza e l’inferiorità degli allievi che, nel loro intimo, disprezzano. In conseguenza del loro impegno, sono naturalmente convinti di essere ottimi insegnanti.

C’è il partner che, in nome della sua passione amorosa e dell’angoscia dell’abbandono, sottopone l’altro ad un controllo asfissiante, lo tormenta con continue richieste di conferme e, non soddisfatto di ciò, lo sottopone a continue prove per verificare se egli vuole veramente bene. Anche solo per il fatto di essere incentrata su di una diffidenza radicale, che implica un giudizio totalmente negativo sull’altro, l’esperienza attesta che l’amore c’entra come il cavolo a merenda. Ma le persone sono convinte che i loro comportamenti sono espressivi di un sentimento viscerale.

Si danno datori di lavoro che sfruttano i dipendenti fino al midollo, ma ritengono che questo rientri nei termini del contratto (quando c’è), e la domenica vanno tranquillamente a messa deponendo nelle cassette il loro obolo per coloro che hanno bisogno.

Ci sono manager che si guadagnano il companatico mettendo sulla strada centinaia di padri di famiglia, che non troveranno più occupazione, in nome delle supreme leggi di mercato.

Ci sono persone straricche che, consumando compulsivamente beni di lusso, ritengono che il loro ruolo di consumatori sia indispensabile ai fini del benessere sistemico. Il fatto che il loro denaro, investito sul piano dell’aiuto sociale anziché nel far crescere le quotazioni delle aziende del lusso, potrebbe essere speso umanamente non gli risulta.

Al top, forse, occorre collocare alcuni uomini di Chiesa che, in nome, dell’amore divino, minacciano di continuo i non credenti di essere destinati alle pene eterne dell’inferno. Essi vogliono salvarli, ma non si accorgono neppure che attribuire a Dio un potere punitivo del genere è un insulto alla sua dignità e una minaccia disumana rivolta ai simili.

L’elenco potrebbe continuare all’infinito, ma non sarebbe esauriente.

L’anestetizzazione dell’empatia, associata alla rappresentazione cognitiva dei buoni sentimenti, è pervasiva. Essa sottende le relazioni sociali ad ogni livello della vita di relazione. Questo aspetto partecipa a dare al nostro mondo una configurazione quotidiana di rozzezza, insensibilità, asprezza, disumanità.

Basta immergersi per due ore nel traffico urbano per toccare con mano in quale misura il darwinismo sociale investa l’universo delle relazioni umane quotidiane.

4.

Oggettivamente, dunque, è inconfutabile che, misurato sulla scala della qualità antropologica, vale a dire del valore che gli individui hanno in quanto consapevoli della loro realtà esistenziale e psicologica, della loro appartenenza sociale e del loro impegno personale a coltivare e migliorare se stessi utilizzando le potenzialità che la natura ha dato ad essi, il nostro mondo, nonostante il suo sviluppo tecnologico, è incredibilmente mediocre, forse tra i peggiori tra quelli prodottisi nel corso della storia della specie. La mediocrità è accentuata, poi, dal fatto che i soggetti, coltivando cognitivamente le emozioni "convenienti", pensano in genere di essere migliori di quanto di fatto sono in riferimento al loro comportamento.

Che questa condizione di pressoché universale alienazione inconsapevole possa far definire il mondo “schifoso” è comprensibile. Mentre però la mediocrità è un giudizio descrittivo, che fa riferimento ad una scala di valore realistica (in quanto gli esseri umani potrebbero essere migliori di quanto sono nel nostro contesto), la schifosità è un giudizio moralistico, che fa capo a come il mondo dovrebbe essere e implica una valenza di disprezzo radicale. Se si parte dal presupposto per cui il mondo è un prodotto storico, nulla vieta di immaginare un mondo ideale profondamente diverso dal nostro, incentrato sull’empatia, sul riconoscimento delle differenze individuali (e interculturali), sulla solidarietà sociale, ecc.

Il problema è però come muoversi in direzione di un mondo del genere, tenendo conto che l’obbiettivo potrebbe risultare anche impossibile da realizzare.

A riguardo, non ho molto da dire. Penso che l’impegno personale nel coltivare l’empatia e nel depurare la propria vita, per quanto possibile, dall’inesorabile contaminazione del modello normativo anestetizzato, sia un contributo minimale ma fondamentale in quella direzione.

Per non ridurre, però, tale impegno sul piano di un narcisismo elitario, come avviene nell’ottica della cultura new age, ad esso occorre aggiungere lo studio dei processi storici, dell’evoluzione della mentalità e della costruzione dei codici culturali normativi.

Il fine non è un universale “volemose bene”, ma un richiamo a capire come la storia, la società e la cultura condizionano gli esseri umani. Su questa base, la rivendicazione della libertà dell’individuo di scegliere un modo di vivere e di essere che non sacrifichi l’empatia è una rivoluzione privata che, un giorno o l’altro, potrebbe diventare storicamente importante.

Serbare fede alla propria natura e umanizzarsi progressivamente è insomma l'unico rimedio al nichilismo. E' ancora possibile, anche se richiede un impegno personale, emotivo e intellettuale molto elevato.